Sull’educazione e l’autismo

Una delle domande che mi viene rivolta spesso riguarda la pratica educativa usata per mia figlia Benedetta. Il suo attuale comportamento non induce a pensare neanche lontanamente che ci sia stato un passato nel quale lei parlasse poco, urlasse tanto, si muovesse senza uno scopo evidente, si sbattesse ossessivamente la mano sul mento e, soprattutto, dormisse poco o niente costringendomi a veglie prolungate nelle quali camminare, correre, girare in tondo, fare le grattatine, dondolarsi, tenendo costantemente la televisione accesa.

La tendenza attuale è quella di dare delle linee guida entro le quali muoversi dopo anni di giungla comunicativa nella quale trovavano spazio tecniche strane, rimedi di tipo sciamanico che attiravano genitori sfiniti e desiderosi di una vita normale. È il solito sistema di riportare ordine senza un senso critico e soprattutto senza considerare che l’oggetto di un atto educativo non è un robot del quale conosciamo ogni meccanismo, ma una persona il cui comportamento si modifica nell’arco della vita in relazione allo sviluppo psicofisico e all’ambiente circostante. È intellettualmente limitante risolvere la complessità umana in norme standardizzate e riduttivo parlare di autismo in termini di alterazione del neurosviluppo avulsa dalla soggettività.

Nell’arco di questi 25 anni di vita con Benedetta ho applicato metodi educativi diversi in relazione al contesto nel quale ci trovavamo. L’uso del plurale non è un vezzo narcisistico ma la realtà dei fatti in quanto il mio compito è stato quello di decodificare per lei gli stimoli che provenivano dall’ambiente favorendo la relazione. Non ho mai perso di vista il fatto che avessi di fronte un essere umano che doveva necessariamente attraversare tutte le fasi di sviluppo e, laddove non avesse gli strumenti per farlo spontaneamente, dovessi semplificare e favorire tali atti.

Questo ha significato una stimolazione e modulazione sensoriale nei primi anni di vita. L’iper-reattività agli stimoli sonori, che la inducevano a urlare come un animale ferito a morte, è stata superata con la conoscenza visiva della fonte del rumore. Perciò era lei che spingeva il bottone per far funzionare la lavatrice oppure focalizzava con un colpo d’occhio il passaggio di un motorino smarmittato.

Intorno ai 3 anni è stata inserita nel programma educativo Teacch che sembrava cucito addosso a lei e che ha permesso il raggiungimento di obiettivi importanti del suo sviluppo di persona inserita in un contesto sociale.

Scrivo tutto questo perché la relazione attraversa fasi alterne nelle quali è opportuno non chiudersi in preconcetti. Da un po’ di tempo il rapporto con Benedetta si è aggravato in termini emotivi. Stiamo attraversando le forche caudine della contestazione come forma di indipendenza, una fase fisiologica che ognuno di noi ha vissuto con i propri genitori ma che in persone con disturbi dello spettro autistico assume i caratteri di una tragedia greca. Quando poi il comportamento ha l’aggravante caratteriale, il risultato è sconvolgente.

Ho dovuto perciò rivedere ogni mia convinzione e scegliere il metodo educativo Aba come il più idoneo a superare questo impasse. In termini pratici, ho redatto, stampato e affisso in diverse stanze, regole di comportamento valide per ogni componente della famiglia e l’elenco dei doveri di Benedetta, ognuno associato ad una stella. Raccogliere cinque stelle significava la possibilità di svolgere le attività a lei più gradite, un comportamento inappropriato aveva come conseguenza la perdita della stella e dell’attività.

Il tentativo ha avuto vita breve nel senso che si è adeguata da subito alle nuove indicazioni e il cartello è rimasto affisso nelle stanze come un grande post-it a rinfrescarci la memoria.

(foto di Fabrizio Intonti)